mercoledì 14 luglio 2010

Giulio Cavalli e la sua lotta




Dopo gli arresti di questi giorni, relativi alla difficilissima e accurata indagine di polizia e carabinieri sulla 'ndrangheta in Lombardia, coordinata da Ilda Bocassini pm della Dda di Milano, è automatico leggere ciò che Giulio Cavalli ha scritto sul suo sito:




Ndrangheta: una valanga di merda in Lombardia

Scrivo questo pezzo con rabbia. Che non sarà certo un sentimento nobile e sicuramente non è elegante per il mio ruolo (che ancora qualcuno dovrebbe spiegarmi in un gioco di rimbalzi e delazioni che mi hanno trascinato su tavoli diversi da giullare scarso a politicante interessato). Non è elegante, mi dicono, lasciarmi prendere dalla pancia che è una zona molle. Eppure oggi provo rabbia. Forse perché mentre scrivo sono di fianco ai nomi di questo Consiglio Regionale che vengono “segnalati” nell’ordinanza e nemmeno troppo preoccupati stanno preparando la strategia difensiva tutta di comunicazione e per niente sui fatti, i riscontri e la realtà. Come al solito. Però scrivo con il sorriso. Il sorriso nel leggere le intercettazioni dove queste merde criminali trapiantate anche qui si sentono braccati come topi di fogna mentre si dicono “questa volta non ce la scampiamo”, con la Boccassini sulle carte a tenere la barra diritta in un’operazione che comunque passerà alla storia. E allora mi si accende il sorriso ad immaginarmeli Alessandro Manno e Emanuel De Castro che scodinzolano desolati sotto gli stipiti. Mi si apre il sorriso a pensare che la mafia che in Lombardia non esiste ha deciso in Lombardia di chiamarsi proprio “Lombardia”, mentre il boss Pino Neri veniva eletto a Paderno Dugnano in un Centro intitolato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sorrido perché non potranno rimanere impuniti: impuniti loro e impuniti tutti quelli che non sentono e non vogliono sentire, in una palude di immobile e latente inciviltà dove informare è un atto di coraggio. Non si potrà stare a lungo impuniti a forza di giocare a fare i sordi: magari mangiati, comprati, giudicati, annessi o complici. Perché il silenzio è complice. E allora mi sia giustificata la rabbia davanti ad un silenzio gelatinoso e interessato che oggi sanguina come di certo non si può nascondere. Lasciando per un secondo il tempo delle analisi, delle considerazioni, dei risvolti politici o criminali. Mi si lasci la rabbia e il sorriso di guardare oggi negli occhi chi gioca a sommergersi tenendomi la testa sott’acqua.

martedì 29 giugno 2010

Lettura della sentenza del processo d'appello a Marcello Dell'Utri

Aspetto di commentare la sentenza solo dopo averne letto le motivazioni, intanto pubblico il link della lettura del dispositivo

lunedì 28 giugno 2010

sindacati di polizia uniti contro il governo

I sindacati confederali si dividono, perché così ha voluto la politica,;per fortuna quelli di polizia, al contrario, stanno facendo comunicati congiunti contro il governo. Vi segnalo l'ultimo:


1° luglio 2010: in tutte le piazze d'Italia tutte le organizzazioni sindacali di polizia del Comparto Sicurezza in piazza "Una firma per la sicurezza e la legalità"

APPELLO AI CITTADINI PER: “UNA FIRMA PER LA SICUREZZA E LA LEGALITA’” Il 1° luglio 2010 i rappresentanti del Comparto Sicurezza saranno in tutte le piazze delle città italiane per informare i cittadini sulle conseguenze dei tagli sulla sicurezza e chiederanno ai cittadini una firma: CONTRO: • I tagli indiscriminati all’apparato ed agli stipendi (già miseri) di coloro che devono garantire la Vostra sicurezza; • Una manovra che colpisce il diritto alla sicurezza invece che tagliare gli sprechi e far pagare le tasse a tutti; • La riduzione delle volanti per il controllo del territorio; • La chiusura dei Commissariati e delle Stazioni. PER: • Aiutarci ad eliminare gli sprechi; • Sostenerci nel mantenere un sistema che garantisca efficacemente la Vostra sicurezza; • Per affermare la centralità dello Stato e della pari dignità di ogni cittadino ad avere sicurezza ; • La razionalizzazione del sistema, come avvenuto in altri Paesi europei affinché con le stesse risorse si possa garantire un risultato migliore

ora l'impegno è di tutti

Mentre aspetto la decisione della Corte d'appello di Palermo, attesa per domani mattina e dopo la richiesta a 10 anni di reclusione per Cuffaro, da parte dei PM Di Matteo e Del Bene, penso a quanto sia importante l'impegno civile di ognuno di noi contro la mafia.

Riapro quindi il blog segnalando questa notizia, la cui fonte è Antimafia Duemila.
E' nata l'Associazione Antimafia ''Giuseppe e Paolo Borsellino'' PDF Stampa E-mail

asso-giuseppe-e-paolo-borsellino-web.gif

28 giugno 2010
E' stata costituita ieri a Verona l'Associazione Antimafia "Giuseppe e Paolo Borsellino, imprenditori vittime innocenti della mafia"
.




E' stata costituita ieri a Verona l'Associazione Antimafia "Giuseppe e Paolo Borsellino, imprenditori vittime innocenti della mafia". Come si legge sullo statuto della neonata associazione di promozione sociale, le finalità principali sono la promozione della cultura antimafia, soprattutto tra le giovani generazioni, mettendole in guardia dalle infiltrazioni mafiose che ormai hanno raggiunto il Veneto e la sensibilizzazione della popolazione tramite incontri, convegni e conferenze con esperti del settore, volti ad approfondire la conoscenza diretta del fenomeno; in tal senso molta attenzione sarà dedicata alla valorizzazione delle storie di tutte quelle vittime di mafia ormai dimenticate.

Punto molto importante e più volte sottolineato durante l'assemblea è
la "stimolazione" delle altre associazioni presenti sul territorio ad occuparsi e a partecipare alla promozione della cultura antimafia come elemento fondante di ogni società che vuole definirsi libera; a tal proposito saranno organizzate periodiche tavole rotonde e incontri con altre realtà associative vicine al tema.

http://public.blu.livefilestore.com/y1prZ1uxaogD0MAiQqHBDD1d6LMSnl3uVsiPRA8CjzpfF3R833zfBbcfsWVH6DjdJqpok7tI5e8tnULE2rld9YPrA/Giuseppe%20e%20Paolo%20Borsellino.jpgI dodici soci fondatori hanno eletto come presidente Benny Calasanzio, 25 enne nipote degli imprenditori Borsellino, cui è dedicata l'associazione. Suo vice sarà invece Stefano Pippa, giovane studente di Filosofia.

"La nascita di un'associazione sfacciatamente antimafia in un territorio come quello veronese è sicuramente un segnale per le persone per bene, ma anche un pessimo presagio per coloro che hanno intenzione massacrare il territorio e il tessuto sociale tramite le infiltrazioni mafiose" ha detto il neo presidente.

"La mafia ormai è una solida realtà su tutto il versante del lago di Garda, infiltrata com'è nelle speculazioni edilizie e nell'acquisizione di aziende in dissesto economico, e gestisce da anni il traffico di droga di tutta l'Europa; la stessa droga che quotidianamente passa dal nostro territorio. La nostra associazione vuole essere un punto di riferimento per tutti coloro che vogliono fare qualcosa contro quella che ormai è una pericolosa realtà quotidiana" ha concluso Calasanzio.

L'inizio delle attività è previsto per la fine di settembre: è già in cantiere un grande incontro con personaggi importanti del mondo della Giustizia. Per tutti coloro che fossero interessati, il sito dell'associazione è www.giuseppeepaoloborsellino.blogspot.com e l'indirizzo mail associazioneborsellino@gmail.com


Tratto da: giuseppeepaoloborsellino.blogspot.com

lunedì 21 dicembre 2009

lettera su Juliano

Mi piace condividere questa testimonianza di una bella persona che ha conosciuto Pasquale Juliano, grazie Carlo!



Oggetto: Pasquale Juliano



Cara Simona, non so se mi ha identificato, ma ci siamo sfiorati da lontano sabato scorso a Casalecchio, alla serata per Sciascia. Lei ha letto un brano e io ero quello della fisarmonica. Detto questo, ecco perché le scrivo. Non avendo avuto modo di presenziare alle conferenze di Politicamente scorretto, mi sono messo ad ascoltarle in streaming e ho appreso del libro che avete scritto assieme ad Antonella Beccaria su Pasquale Juliano. Fossi stato presente, mi sarebbe piaciuto raccontare questa storia. Nel febbraio 1969, tra le tante cose politicamente incredibili che accaddero in Italia, ci fu la rivolta e la contestazione dei giovani non vedenti che studiavano negli appositi istituti. Erano quasi tutti istituzioni chiuse, "istituzioni totali", come si diceva allora. Ma c'era la falla. Qui a Bologna, all'istituto Cavazza di via Castiglione, erano ospitati anche studenti universitari. Io ero fra loro. Dunque noi, come si dice, facemmo il sessantotto. E nel '69, cogliemmo certi spunti occasionali per far partire anche là dentro una forma di contestazione. Ci seguirono i ragazzi dell'istituto Configliachi di Padova. Quello era un vero e proprio lager e gli ospiti non erano così attrezzati politicamente, come eravamo noi di Bologna. Per cui partimmo in loro aiuto. Accadde che un giorno arrivò la polizia, entrò, prese i nostri compagni presenti in quel momento, li schedò e li rimandò a Bologna. Il giorno dopo ritornammo in forze assieme ad altri studenti nostri amici vedenti. L'istituto era circondato dalle forze dell'ordine. Ma si vede che nemmeno loro ci credevano poi tanto. Sta di fatto che noi riuscimmo ugualmente ad aggirare il blocco e ad entrare. Da dentro cominciammo ad allertare stampa, partiti, universitari del movimento. Se non ci crede, guardi i giornali del tempo. L'istituto fu circondato dal II Celere. Entrarono, ci prelevarono e ci portarono tutti in questura per inhterrogarci. Io fui interrogato da un poliziotto, poi da un altro che mi chiese le stesse cose. Poi arrivò un terzo e ricominciò daccapo. Quando gli dissi il nome del paese di nascita e l'indirizzo, lui mi chiese se per caso non fosse la piazza vicino al teatro, ecc ecc. Insomma, viene fuori che era un mio compaesano e mi disse anche il suo nome: era Pasquale Juliano. Simpatico a tutta prima, ma io ero un ventenne ubriaco di rivoluzione e diffidavo. Quando lui mi disse che, personalmente, lui poteva anche essere d'accordo con le nostre ragioni, però il modo... ecc ecc, ricordo che io gli dissi una cosa perfida che adesso non direi più. Gli dissi, sarcasticamente: "Che fa? Si mette a pensare? Una polizia che pensa?" Ero scemo, lo so. E so anche, adesso, che se non mi ridussero come Aldrovandi o Cucchi, fu perché - ora lo so - contro dei ciechi non si sarebbero messi a fare certe cose... Tornato a casa, raccontavo in giro questa mia fanfaronata, fino a che, un paio di mesi dopo, imparo dai giornali dell'arresto di Freda e Ventura; e dell'autore di quegli arresti. Fra l'altro, nel gruppo degli arrestati c'era anche un certo Marco Pozzan, che faceva il bidello proprio nell'istituto Configliachi che avevamo occupato! Allora fui orgoglioso della mano che Juliano mi aveva stretto salutandomi. E m'incazzai come una vipera quando seppi che quelle merde di neofascisti erano riusciti ad incastrarlo nel modo che sappiamo. Non ne ho più saputo niente. Ma quell'episodio è stato un mattone importante nella costruzione della mia visione politica. Oggi ho idee mie sulla polizia e non sono di sostegno incondizionato. Credo che in democrazia ogni potere deve avere necessari contrappesi. ecc ecc.
La ringrazio per la pazienza nel leggermi e anche per la sua collaborazione alla riuscita della serata di sabato. Penso che presto comprerò "Attentato imminente".
Saluti cordiali
Carlo loiodice
--------------------

giovedì 17 dicembre 2009

IL PERICOLO CORRE IN RETE

Su Fare Futuro, il webmagazine diretto da Filippo Rossi, oggi c'è un articolo firmato da Federico Brusadelli che condivido pienamente e per questo lo riporto:

Le leggi esistono, non blocchiamo le potenzialità benefiche della Rete

Facebook non è terrorismo.
E il web ha già i suoi anticorpi

di Federico Brusadelli
Esistono le telefonate minatorie. Questo è un dato di fatto, purtroppo. Non per questo, però, sarebbe logico e ragionevole immaginare un mondo senza telefoni. È sempre bene non confondere il “mezzo” con l’ “uso” che se ne può fare, insomma. Perché questo discorso? Perché questa tra “mezzo” e “uso” è una distinzione che, soprattutto negli ultimi giorni, dopo l’aggressione subita dal presidente del Consiglio in piazza Duomo a Milano, a qualcuno sembra essere poco chiara. Il mezzo in questione non è il telefono ma – segno dei tempi – la Rete. E, in particolare, i social network, che della Rete sono la declinazione più vivace e più “moderna”. Ecco, il punto è questo. Che qualche esagitato, idiota o disadattato possa esprimere su Facebook il suo odio, la sua frustrazione o i suoi folli propositi, nei confronti di leader politici e personaggi pubblici, non significa che il pericolo sia nel social network, nel “mezzo”, appunto. E pertanto avrebbe poco senso auspicare una stretta su internet – e lo abbiamo già detto, su questo magazine – magari cedendo alla tentazione della censura preventiva (cosa che puntualmente è avvenuta). Certo, c’è chi lo fa, tutto è possibile. Ma non si tratta, perlopiù, di paesi occidentali. Le leggi ci sono già, in Italia, e basterebbe applicarle con precisione, durezza e meticolosità. Ma privare internet anche di quel “senso” di libertà (anche solo di un pizzico di libertà) che ne costituisce la vera essenza e che gli permette, davvero, di incarnare la vera Rivoluzione di questo millennio, non sarebbe una scelta giusta. Non sarebbe neanche fattibile, come hanno spiegato quasi tutti gli esperti del settore. E poi, tanto per essere più precisi, c’è un grande paradosso del web, da tenere a mente. E cioè: è vero che la Rete è libera, ma è altrettanto vero che mai come in questo momento storico ognuno di noi è stato così “rintracciabile”: una scritta sul muro, di notte, garantiva l’anonimato; un post su Facebook, no. Siamo tutti intercettati, si potrebbe dire. Non è un bene, né un male. È un fatto. Questa rintracciabilità permetterebbe dunque già ora, se usata bene, un connubio quasi ideale fra libertà e sicurezza.Sostenere pertanto, come ha fatto oggi il presidente del Senato, che per colpa dei social network la situazione sia peggiore che negli anni di piombo («Si leggono dei veri e propri inni all'istigazione alla violenza; negli anni 70, che pure furono pericolosi, non c'erano questi momenti aggregativi che ci sono su questi siti; così si rischia di autoalimentare l'odio che alligna in alcune frange», ha detto Schifani), è un’analisi che può apparire “di retroguardia”. Può apparire anche come un’affermazione ingenerosa nei confronti di chi – e si tratta della quasi totalità dei cittadini italiani – usa quotidianamente internet e i social network con finalità non solo innocue, ma molto spesso fruttuose per l’intera società. Ed è soprattutto una riflessione che non tiene conto delle immense potenzialità “benefiche” del web: uno sconfinato spazio di comunicazione, una prateria per l’ immaginazione, un potenziale oceano di di produzione culturale. Che può, oltretutto, produrre da solo i suoi anticorpi.


17 dicembre 2009

sabato 12 dicembre 2009

12 dicembre 1969

Oggi ricorre il quarantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana e proprio per questo Antonella Beccaria e io abbiamo deciso di raccontare una storia importante, ma sconosciuta: quella del commissario di Pubblica Sicurezza Pasquale Juliano, l'uomo che con le sue indagini avrebbe potuto evitare la strage.

Pasquale Juliano, l’entusiasta

Attentato imminenteCi sono libri che lasciano un gran dolore addosso. Sono i primi da leggere, perché un organismo non può sviluppare anticorpi in assenza di esposizione al male. Attentato imminente è tra questi. Le vicende che rivivono attraverso le penne appassionate e precise di Antonella Beccaria (Uno Bianca, Trame Nere) e Simona Mammano (Assalto alla Diaz) sono poco note ai più, ma costituiscono i semi dai quali germoglieranno alcune delle pagine più macabre degli “anni di piombo” italici. Siamo infatti nel nord-est di fine anni sessanta, quando una bomba ai danni del rettore Opocher apre una stagione i cui protagonisti principali assurgeranno, mesi dopo, alla ribalta della cronaca per l’attentato che “fece perdere l’innocenza” al Paese: piazza Fontana. Un poliziotto, alla Questura di Padova, era arrivato a un passo dal Sancta Sanctorum del neofascismo di quella zona. Messo dai superiori, quasi per caso, ad indagare su alcuni atti violenti, senza una vera preparazione “politica”, sfiorò il successo che a funzionari con molta più esperienza (vuoi per imperizia, vuoi per una serie di coincidenze inquietanti) non apparve nemmeno lontanamente raggiungibile.

Pasquale Juliano, giovane Commissario della Polizia di Stato, era a pochi giorni dalle manette a Franco Freda e Giovanni Ventura (anche perché aveva intuito e messo nero su bianco il rischio di attentati di vaste proporzioni a breve termine), quando il meccanismo che gli aveva consentito di arrivare sin lì (una rete di informatori) gli si ritorce contro. Da inseguitore, il poliziotto si ritrova braccato. Dalle accuse tra le più infamanti per un uomo in divisa, lanciate da chi, fino al giorno prima, gli aveva riferito movimenti di armi e progetti di quanti fungevano da braccio armato delle “spinte centrifughe” che avrebbero tenuto tristemente compagnia all’Italia per lunghi anni ancora. Il procedimento penale a carico di Juliano durerà una decade. Al termine, verrà completamente scagionato. Un eroe borghese? Indubbiamente. Un superuomo? No. Un martire? Nemmeno. Soprattutto, però, un entusiasta, come racconta Antonella Beccaria, in quest’intervista in cui “Attentato Imminente” ha fatto da punto di partenza per ragionamenti ad ampio raggio sull’Italia e su come non sia mai riuscita ad affrancarsi da determinate ever-distorsioni.

La storia di Pasquale Juliano, ancor prima che costituire uno sfregio al Diritto e un’aberrazione sul piano umano, fa riflettere profondamente sull’organizzazione delle Forze dell’ordine, realtà costituzionalmente deputate al rispetto delle leggi. Come può, l’appartenente a una struttura gerarchica, che per mesi ha costantemente tenuto informati delle sue attività pari grado e superiori, trovarsi isolato da un giorno all’altro, a fronteggiare accuse infamanti, di viltà e tradimento allo Stato che aveva scelto di servire? Il sospetto non avrebbe dovuto tangere, verosimilmente, anche coloro che assieme a lui operavano all’epoca?

Di fatto, erano in diversi che seguivano le indagini di Pasquale Juliano e tra loro c’erano i funzionari dell’Ufficio politico (Juliano comandava la Squadra mobile) e il Questore a cui il Commissario faceva riferimento. Ma, leggendo gli atti, si ha come l’impressione che tutte queste persone si siano tenute a distanza dall’indagine, l’abbiano osservata, ma non abbiano voluto avere un ruolo attivo in essa. Sì, ci si coordinava per perquisizioni, pedinamenti o colloqui con gli informatori, ma gli input venivano sempre da Juliano. In questo modo, suoi pari grado e superiori forse hanno avuto gioco più facile nello sgusciare via a terremoto avvenuto. Anche dal punto di vista umano, il commissario ha avuto solidarietà e attestazioni di stima solo dai suoi sottoposti.

Attentato imminente racconta in modo molto puntuale l’escalation dei neofascisti del nord-est nel composito e maledetto mosaico che, a posteriori, siamo in grado di definire “eversione nera”. Quasi sempre, nelle loro vicende, si parte da pseudo-circoli culturali, affiliati a librerie, o comunque luoghi di riflessione e d’incontro. E’ ragionevole che questi assembramenti siano potuti, almeno inizialmente, passare inosservati alle autorità. Però, il libro ci insegna anche che buona parte dei loro arsenali era composto, ad esempio, da armi della RSI custodite clandestinamente, nella fase iniziale, nelle sedi dell’Msi. Penso si possa essere d’accordo sul fatto che ciò avrebbe dovuto destare qualche attenzione in più. Gli occhi di chi doveva vigilare sulla democrazia, dove guardavano quando quegli armamenti finivano nelle mani dei militanti del Movimento Sociale?

No, non è ragionevole e di fatto determinati movimenti non erano poi neanche così nascosti. Basti pensare alle intercettazioni telefoniche a carico di Franco Freda mesi prima di piazza Fontana: per quasi tutti i neofascisti citati nel libro c’erano informazioni raccolte dell’ufficio politico. Sta di fatto poi che determinati documenti, come i brogliacci o le trascrizioni delle intercettazioni a Freda, non verranno passati alla magistratura, ma all’ufficio Affari Riservati e agli inquirenti arriveranno solo nel 1972, per cui con un ritardo di tre anni.

Juliano si trova nei guai dopo che gli ordinovisti su cui stava indagando - che lo avevano condotto ad un passo da Freda e Ventura – al termine di un’incredibile notte assieme in cella iniziano a raccontare all’unisono la stessa versione dei fatti, mai sentita fino al giorno prima. Il lavoro di ricerca alla base di “Attentato Imminente” è consistente. Avete provato, tu e Simona Mammano, a scoprire chi consentì, o diciamo chi si “distrasse” e non notò che un gruppo di neo-arrestati stava finendo nella stessa camera di detenzione?

Gli atti giudiziari raccolti forniscono una ricostruzione in merito a questo episodio. La forniscono sulle parole di uno degli accusati, Massimiliano Fachini, personaggio noto del neofascismo padovano, che parlerà di un brigadiere che li raduna tutti nella stessa cella perché facciano dire la verità agli informatori del commissario. Il che si traduce nelle accuse che piovono addosso a Juliano e che gli provocheranno strascichi giudiziari per dieci anni. Se i fatti stiano proprio come li ha raccontati Fachini, alla luce delle risultanze processuali, non si sa. Ciò che è chiaro è che prima abbiamo due persone che danno una versione che accusa i neofascisti degli attentati a Padova e poi un’altra, che li scagiona e incastra Juliano. Ma le versioni non si fermeranno qui, seguiranno altre ritrattazioni.

Se le indagini condotte da Juliano fossero andate a buon fine, gli eversori storicamente associati alla strage di Piazza Fontana sarebbero stati assicurati alla giustizia. Pensi che la strategia della tensione sarebbe stata così stroncata sul nascere, eliminando esponenti di rilievo della sua manodopera, o il cancro era ormai a livelli di metastasi?

Forse no, difficile dirlo adesso. Forse, se Juliano avesse terminato il suo lavoro, determinate dinamiche sarebbero state rallentate perché occorreva trovare nuove persone con specifiche convinzioni e condotte. Sta di fatto che la vicenda del Commissario dimostra che, comunque sia, qualcosa a contrasto del terrorismo nero si poteva fare. Ma non è accaduto nulla.

Già in passato, con “Uno bianca, trame nere”, ti sei occupata di episodi in cui pezzi, o uomini, di Stato “impazziscono” e vanno nella direzione opposta a quella tracciata dall’ordinamento. Episodi gravi, che rappresentano ferite lancinanti, ancora aperte in molti casi. Eppure, lo stesso ordinamento prevede anche gli “anticorpi”. Quanto è fragile, la nostra democrazia, se vicende del genere possono verificarsi e, nonostante tutto, ripetersi?

La democrazia in questo Paese è sempre stata fragile e soprattutto incompleta. Ingerenze politiche e di intelligence straniere, realtà come quella della loggia P2, apparati dello Stato che fiancheggiavano entità terroristiche, depistaggi hanno fatto in modo che non si arrivasse mai a un’entità nazionale compiuta. Tutto ciò è accaduto dagli accordi del 1943, ancora in piena guerra, fino alla caduta del muro di Berlino. E continuano ad accadere, a mio avviso. Altrimenti non si spiegherebbero vicende come quelle di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, della Moby Prince, di Vincenzo Li Causi o del motopeschereccio pugliese “Francesco Padre”. Tutti questi fatti sono successivi al 1989 e andando ad analizzarli hanno poco da invidiare, in termini di inquinamenti, rispetto ad altre storie risalenti al periodo della guerra fredda.

Juliano riottiene il suo onore, con la sentenza di assoluzione. Viene promosso Vicequestore, ma abbandona la Polizia all’indomani del pronunciamento della corte, dedicandosi alla professione di legale. Così, sosteneva, avrebbe offerto un miglior contributo alla giustizia. Però, è l’esatto contrario della sensazione che si prova leggendo le ultime pagine del libro, a proposito del ruolo dell’avvocato Taormina nel procedimento su piazza Fontana…

Parlando con ex colleghi di Juliano, con i familiari, con inquirenti e con giornalisti che ebbero modo di incontrarlo fino all’aprile 1998, quando il Commissario morì, sono concordi nel descriverlo come un uomo con un forte senso della giustizia. Probabilmente Juliano ha creduto nella giustizia ogni volta che ha cercato di portare il suo contributo: a Catanzaro nei processi per piazza Fontana, a Bologna per le indagini sulla strage alla stazione e a Milano di nuovo per i fatti del dicembre 1969. Ogni volta però deve aver ingoiato qualche boccone indigesto perché negli ultimi anni viene descritto da quelle stesse persone come un uomo amareggiato. Quando occorreva ricominciare, però, sull’amarezza vinceva in Juliano una sorta di entusiasmo. Forse è proprio quel tipo di entusiasmo che può salvare almeno una parte dei cittadini di questo Paese di fronte a una serie di comportamenti “contrastanti” dello Stato.

I neofascisti del ventunesimo secolo sono indubbiamente diversi, in fatto ideale e di formazione, da quelli raccontati nel tuo libro. Devono farci più, o meno paura?

Vanno tenuti in considerazione, vanno studiati. Senza tutto ciò non è possibile comprenderli come realtà politica e ancor meno è possibile comprenderne la portata. Non so se siano più o meno minacciosi rispetto agli anni di piombo, forse meno, almeno dal punto di vista terroristico e almeno dalle notizie di cui si dispone ora. Ma ci sono altri ambiti in cui possono creare inquietudine e mi riferisco a minacce di natura diversa come quelle legate alla xenofobia, all’omofobia e alla violenza contro qualunque tipo di diversità. Va tuttavia sottolineato che le demarcazioni si sono fatte più sfumate e la stessa inquietudine la suscitano persone che non si definiscono né fasciste né antisemite e nemmeno razziste, per quanto paradossale possa sembrare. Oggi la situazione è molto diversa e le paure collettive non sono più le bombe: sono ad arte indirizzate verso gli immigrati, non importa se comunitari o meno, verso le malattie importate dall’estero (che generano fatturati imbarazzanti per le lobby del farmaco, ma in pochi ci pensano), verso la criminalità da strada. Ecco, questi sono falsi obiettivi, sono gonfiati, sono le dita che indicano una luna ben più oscura: quella della criminalità organizzata bipartisan che lotta per preservare il proprio ruolo e la propria impunità.

Marc Lazar, professore alla facoltà di Parigi di Scienze politiche e autore del volume “L’Italia sul filo del rasoio”, pur essendo tutt’altro che tenero nei confronti di Silvio Berlusconi sostiene che in Italia, attualmente, non esista un rischio di deriva autoritaria, di ritorno al fascismo, ma che la criticità attenga la libertà di stampa. Sei d’accordo? Ti senti di escludere categoricamente una potenziale implosione delle nostre istituzioni?

Personalmente non credo a una dittatura militare in questo paese, non oggi. Questo Paese è a rischio di dittatura “morbida”: un potere politico coeso intorno alla propria impunità, come dicevo prima, che non si preoccupa di manifestazioni fasciste e/o razziste nel Paese. Attenzione, questo non è discorso contro Berlusconi, ma è più ampio e più trasversale (le recenti cronache giudiziarie lo dimostrano). Il controllo della stampa è funzionale a questa impostazione e, sempre dal mio punto di vista, la stampa ha il dovere non solo di denunciare questi tentativi (questo lo ritengo un automatismo), ma impedire che l’”agenda setting” della politica la distolga da questioni ben più importanti e più “distraenti” di un legaccio esplicito.

La destra che fa capo a Gianranco Fini, intuendo forse i rischi di un appiattimento sulle posizioni berlusconiane, ha recentemente ripreso ad innalzare i drappi dei suoi temi storici, quali la legalità e il senso dello Stato e il servizio ad esso. Tratti che in Pasquale Juliano ritornano tutti. Eppure, di lui non si parla mai. Perché?

Bella domanda. La vicenda Juliano la conoscono solo coloro che si sono occupati o hanno approfondito i fatti legati a piazza Fontana. Non è una vicenda nota eppure è la storia di un eroe borghese, per quanto Juliano non venga assassinato, come altri più avanti accadrà a Giorgio Ambrosoli e ad altri nel periodo della strategia della tensione. In tutti questi anni nessuno ha mai cercato gli atti giudiziari che lo riguardano e per lo più è stato dimenticato. Di certo, fu un uomo dello Stato che più che capire a pieno (questo sarebbe venuto dopo) ha intuito. Ma nessuno gli ha mai neanche chiesto scusa. Questo è stato il suo grande rimpianto: almeno le scuse per ciò che aveva subito. Non era alla ricerca di encomi e premi.

Perché, nel nostro Paese, la destra fatica a superare una connotazione “da stadio”, fatta di urla, violenza e di tutta l’estetica scalmanata che le curve ci hanno insegnato, senza riuscire ad arrivare a livelli differenti, quali, ad esempio, il Gaullismo francese? Dobbiamo rassegnarci all’idea di rappresentare una landa a zero chance evolutive?

Le chance, vedendo la situazione attuale, al momento possono essere solo involutive. E prima di altri per la sinistra, che dal punto di vista parlamentare non esiste più. Oltre al Partito Democratico, il resto è parcellizzato in mille rivoli mentre la destra, dallo stadio, è entrata nelle fabbriche, si è diffusa ancora di più nei quartiere popolari e per certi versi ha presentato istanze più sociali di molti esponenti della sinistra. È ora che si ripensi prima di tutto al proprio ruolo. E intanto si conduce un’analisi del nemico, troppo cristallizzato nella figura di Silvio Berlusconi. Che è deleteria per questo Paese, ma è solo l’aspetto più grossolano e arrogante del potere.

Un dato sul quale si riflette sempre troppo poco è quello relativo al risultato ottenuto dall’Msi alle prime elezioni democratiche. Il numero di consensi ottenuto è straordinariamente superiore alle aspettative. Parliamo, oltretutto, di una forza che, ai sensi della Costituzione, nemmeno avrebbe dovuto essere sulla scheda. Però, quei voti arrivano e sono ben più di quelli che potessero provenire dai gerarchi del disciolto regime e dalle persone a loro prossime. Non sarà che tutto quanto di “nero” è venuto negli anni a seguire rispondesse comunque a spinte, più o meno malcelate, che aleggiavano nel Paese?

Di certo sì. Giustamente parli di un partito che nemmeno doveva stare sulla scheda eppure la XII disposizione transitoria della Costituzione è sempre stata quasi un’opinione. Si contano sulle dita i casi di scioglimento di una formazione politica per apologia del fascismo. Questo vorrà pur dire qualcosa, per un Paese che ha pagato un prezzo altissimo per la dittatura che l’ha governato per un ventennio. Come in ogni nazione che passa da un regime dispotico a uno democratico – o sedicente tale - si indulge sul ricambio nella pubblica amministrazione, nell’assetto industriale privato e nei partiti. L’anomalia diventa esplicita proprio con le elezioni del 1948.

A volte ho l’impressione che la sinistra, specie quella maggiormente radicale, non maturi e non capisca che, innalzando i muri che non manca di erigere contro la destra meno ortodossa, si faccia in realtà – complice anche il perverso funzionamento del tritacarne giornalistico cui assistiamo ogni giorno – il gioco dei neofascisti, che trovano in quelle prese di posizione la miglior auto-legittimazione a definirsi “martiri”, seguita da altrettanta visibilità mediatica. Sembra lo stesso anche a te?

Sì. L’”essere diversi”, espressione molto cara alla sinistra, è già stato sfatato ed è diventato quasi un leitmotif per rimanere all’interno della propria trincea. Pensa alle eterogenee reazioni della sinistra “istituzionale” dopo il G8 di Genova, quando - al di là delle violenze consumatesi in quell’occasione, ma questo è un altro discorso - c’era un fermento culturale e politico che lasciava presagire un ricambio, un rinnovamento delle istanze della sinistra. I vertici DS ne sembravano infastiditi, chi si dichiarava disponibile a un dialogo, e parlo di Sergio Cofferati, è diventato sindaco di una città importante come Bologna affossando la propria esperienza politica. Una parte dei movimenti non ha saputo trasformare in proposta la propria vivacità, i partiti non hanno saputo dialogare con loro. Risultato? Nemmeno il nulla, ma l’involuzione di cui sopra.

Concludiamo con una domanda che guarda al futuro. I giovani non hanno memoria e ciò, unito a quanto il neofascismo sia oggi più subdolo (vedere “Nazi Rock” per credere), è pericolosissimo. A che livello sarebbe opportuno agire per coinvolgerli e fornirgli, nei termini corretti, ciò che è realtà storica oggettiva?

L’estate scorsa i ragazzi intervistati sui fatti del 2 agosto 1980, quando esplose la bomba alla stazione di Bologna, hanno dato risposte desolanti: per loro erano state le Brigate Rosse. Credo che sia necessario andare oltre la retorica: finché ci si limiterà a osservare minuti di silenzio in memoria, larga parte dei cittadini non verrà raggiunta. La cultura deve essere la chiave: la letteratura, il cinema, il teatro, il fumetto, l’utilizzo delle nuove tecnologie possono essere una chiave per avvicinare le generazioni che gli anni di piombo non le hanno vissute. Occorre far leva sulla curiosità, sulla voglia di partecipazione, sul normale passa parola che ha decretato il successo di fenomeni editoriali che senza questo sistema spontaneo e giovanile mai avrebbero potuto aspirare a tanto. Insomma, basta con i doppio petti, con il marketing, con gli slogan: diamo spazio alla creatività. La storia e la memoria si trasmettono anche così.

Il booktrailer è stato realizzato da Luigi Milani.

Visita la pagina dedicata ad Attentato imminente su Facebook.

(Questa intervista è stata pubblicata sul blog Yesterday’s papers


Attentato imminente - Piazza Fontana, una strage che si poteva evitare di Antonella Beccaria e Simona Mammano
Collana Senza finzione
216 pagine
ISBN: 978-88-6222-106-

martedì 15 settembre 2009

I dieci minuti di giornalismo meno trasmessi d'Italia

Scritto da Simona Mammano il 15 settembre 2009 per Fuori dal coro

Oggi è l'ultimo giorno di sospensione feriale e da domani riprendono i grandi processi di mafia. Domenica 13 Antonio Ingroia, ha parlato di mafia (intesa in senso ampio del termine). Il magistrato sta seguendo per l'accusa i più importanti processi di mafia.

Riporto l'articolo di uscito oggi su Libera Informazione, ripreso da Antimafia Duemila

di Roberto Rossi* - 15 settembre 2009
Antonio Ingroia sull’ultima intervista al magistrato Paolo Borsellino.

«Non so se sia stato un eroe, di certo era un mafioso e un assassino», parola di Antonio Ingroia, magistrato. «Lo dice una sentenza definitiva e una condanna all’ergastolo per duplice omicidio». È tutta qui l’eccellente contraddizione del Paese governato da chi parla di un mafioso, omicida, trafficante di droga, come di un eroe: «Riguardo a Vittorio Mangano, quando era in carcere ed era malato, i pm gli dicevano che se avesse detto qualcosa su Berlusconi sarebbe andato a casa e lui eroicamente non inventò mai nulla su di me, i pm lo lasciarono andare a casa solo il giorno prima della sua morte. Quindi bene dice Dell'Utri nel considerare eroico un comportamento di questo genere» (Silvio Berlusconi, 9 maggio 2008).

Bologna, 13 settembre 2009. Cinque giorni dopo le dichiarazioni milanesi del premier sulla «follia» dei «frammenti di Procura che da Palermo a Milano guardano ancora ai fatti del '92, del '93, del '94, cospirando contro di noi». Sul palco della Festa dell’Unità, assieme al procuratore aggiunto di Palermo, siedono la corrispondente di «Die Zeit» Petra Reski, autrice di «Santa Mafia», Roberto Morrione, la senatrice piddì Rita Ghedini e Roberta Bussolari di Libera. Sul palco, dietro i relatori, affacciato da uno schermo gigante, c’è anche Paolo Borsellino, con le sue immancabili sigarette, la polo verde, a casa sua, il 19 maggio del 1992, intervistato da due giornalisti francesi di Canal plus sulla natura criminale dell’ex dipendente di Silvio Berlusconi, Mangano Vittorio, e sulle indagini a carico del manager di Publitalia, Dell’Utri Marcello. Dieci minuti di giornalismo che ognuno di noi può vedere su YouTube, trasmessi dal servizio pubblico solo una volta, anni fa, su Rai News 24, quando a dirigerlo c’era l’attuale direttore di Liberinformazione. In quei dieci minuti, quattro giorni prima della strage di Capaci, due mesi esatti prima della sua morte, Paolo Borsellino parla del faccendiere di Arcore, come del «capo della famiglia di Porta Nuova. Terminale dei traffici di droga che conducevano le famiglie palermitane».

Antonio Ingroia è appena rientrato dalle ferie, ed è tornato ad indagare su chi prese parte alla trattativa fra Stato e mafia per far cessare la stagione delle stragi (Capaci, via D’Amelio, Roma, Firenze, Milano) dopo che le recenti dichiarazioni del collaboratore Gaspare Spatuzza e di Massimo Ciancimino, figlio di Vito ex-sindaco mafioso di Palermo, hanno fatto emergere degli elementi che «aprono degli squarci – dice il magistrato – nel velo che copre le verità sulle quali fare piena luce è interesse delle istituzioni, dei familiari delle vittime e di tutti i cittadini». «Elementi – continua – che possono rendere plausibile il fatto che dietro le stragi non ci sia solo il mandato di Cosa Nostra. Il dovere di noi magistrati è quello di indagare, essendo obbligatoria l’azione». Ingroia è stato anche il pubblico ministero del processo che ha portato alla condanna in primo grado a nove anni di reclusione di Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione di tipo mafioso, sentenza sulla quale a giorni si esprimerà l’appello. Circostanza che il premier teme possa alimentare un fuoco mediatico nazionale e internazionale simile a quello scatenato dai recenti scandali sessuali.

Sull’intervista al suo maestro, il giudice dice: «È il testamento professionale di Paolo Borsellino, oltre che essere un documento di un’importanza tale da averlo usato fra gli elementi per sostenere l’accusa nel processo contro il fondatore di Forza Italia. Un’intervista nella quale Borsellino esprime, con l’estrema sintesi che gli apparteneva, la trasformazione imprenditoriale di Cosa Nostra, dovuta all’imponente massa di capitali proveniente dal traffico di droga, che la mafia siciliana all’epoca controllava in regime di monopolio». La più grossa “banca” che l’Italia avesse, con la più vasta (e più facile da reperire) disponibilità di credito. Conviene riportare un passo di quei dieci minuti palermitani. «Non le sembra strano – chiese il giornalista a Borsellino – che certi personaggi, grossi industriali come Berlusconi, Dell’Utri, siano collegati con uomini d’onore tipo Mangano?». «All’inizio degli anni Settanta – rispose il giudice – Cosa nostra cominciò a diventare un’impresa anch’essa, un’impresa nel senso che attraverso l’inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa nostra cominciò a gestire una massa enormi di capitali dei quali naturalmente cercò lo sbocco, perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all’estero, e allora così si spiega la vicinanza tra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali». «Dunque lei mi dice che è normale che Cosa Nostra si interessi a Berlusconi?» incalzò il giornalista. E il magistrato, dopo una pausa, dando una lunga boccata alla sigaretta: «È normale che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per poter impiegare questo denaro, sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Le posso dire che Mangano era uno di quei personaggi che ecco erano i ponti, le teste di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia».

Da Palermo a Bologna. Molti anni dopo. Quando le bande verticali interrompono bruscamente la voce e l’immagine del giudice ucciso dalla mafia, e la platea lascia scrosciare un applauso commosso, Antonio Ingroia è il primo a prendere la parola: «Io dico che nonostante si rischi di dare il colpo di grazia al sistema giudiziario italiano con un disegno di legge che, attentando all’autonomia dei magistrati, impedirebbe l’apertura dei processi che vedono imputati i politici che hanno avuto rapporti con la mafia, noi dobbiamo dare un calcio alla porta che impedisce di fare piena luce sulla stagione delle stragi. Una verità che i cittadini italiani hanno il sacrosanto diritto di conoscere».

Per ora, per la grande rilevanza che ha quell’intervista, tanto più in un frangente politico e giudiziario come quello che viviamo in questi giorni, basterebbe che la voce e il messaggio di Paolo Borsellino arrivassero al maggior numero di italiani, che quelle barre verticali, trasmesse di nuovo dal servizio pubblico, coinvolgessero e indignassero i milioni di telespettatori cui al momento è negato ogni frammento di verità.

*Ossigeno per l'informazione

Tratto da: Liberainformazione.org

domenica 19 luglio 2009

Riina e la politica

Scritto da Simona Mammano il 19 luglio 2009 per Fuori dal coro



Serviranno a qualcosa le dichiarazioni fatte ieri, attraverso il suo avvocato, da Totò Riina agli italiani? Perchè di questo si tratta, dichiarazioni per l'opinione pubblica, non per i tribunali con la funzione di collaborare e ottenere uno sconto di pena. Riina dice "Non guardate sempre e solo me, guardatevi dentro". Riporto di seguito l'articolo di Repubblica:


Dopo diciassette anni di silenzio totale parla il boss di Corleone
E sulla strage di via d'Amelio accusa i servizi e lo Stato

Riina sul delitto Borsellino
"L'hanno ammazzato loro"

di ATTILIO BOLZONI, FRANCESCO VIVIANO

TOTÒ RIINA, l'uomo delle stragi mafiose, per la prima volta parla delle stragi mafiose. Sull'uccisione di Paolo Borsellino dice: "L'ammazzarono loro". E poi - riferendosi agli uomini dello Stato - aggiunge: "Non guardate sempre e solo me, guardatevi dentro anche voi". Dopo diciassette anni di silenzio totale il capo dei capi di Cosa Nostra esce allo scoperto.

Riina lo fa ad appena due giorni dalla svolta delle indagini sui massacri siciliani - il patto fra cosche e servizi segreti che i magistrati della procura di Caltanissetta stanno esplorando. Ha incaricato il suo avvocato di far sapere all'esterno quale è il suo pensiero sugli attentati avvenuti in Sicilia nel 1992, su quelli avvenuti in Italia nel 1993. Una mossa a sorpresa del vecchio Padrino di Corleone che non aveva mai aperto bocca su niente e nessuno fin dal giorno della sua cattura, il 15 gennaio del 1993. Un'"uscita" clamorosa sull'affaire stragi, che da certi indizi non sembrano più solo di mafia ma anche di Stato.

Ecco quello che ci ha raccontato ieri sera l'avvocato Luca Cianferoni, fiorentino, da dodici anni legale di Totò Riina, da quando il più spietato mafioso della storia di Cosa Nostra è imputato non solo per Capaci e via Mariano D'Amelio, ma anche per le bombe di Firenze, Milano e Roma.

Avvocato, quali sono le esatte parole pronunciate da Totò Riina? Sono proprio queste: "L'ammazzarono loro"?
"Sì, sono andato a trovarlo al carcere di Opera questa mattina e l'ho trovato che stava leggendo alcuni giornali. Neanche ho fatto in tempo a salutarlo e lui, alludendo al caso Borsellino, mi ha detto quelle parole... L'ammazzarono loro...".

E poi, che altro ha le ha detto Totò Riina?
"Mi ha dato incarico di far sapere fuori, senza messaggi e senza segnali da decifrare, cosa pensa. Lui è stato molto chiaro. Mi ha detto: "Avvocato, dico questo senza chiedere niente, non rivendico niente, non voglio trovare mediazioni con nessuno, non voglio che si pensi ad altro". Insomma, il mio cliente sa che starà in carcere e non vuole niente. Ha solo manifestato il suo pensiero sulla vicenda stragi".

Ma Totò Riina è stato condannato in Cassazione per l'omicidio di Borsellino, per l'omicidio di Falcone, per le stragi in Continente e per decine di altri delitti: che interesse ha a dire soltanto adesso quello che ha detto?
"Io mi limito a riportare le sue parole come mi ha chiesto. Mi ha ripetuto più volte: avvocato parlo sapendo bene che la mia situazione processuale nell'inchiesta Borsellino non cambierà, fra l'altro adesso c'è anche Gaspare Spatuzza che sta collaborando con i magistrati quindi...".

Le ha raccontato altro?
"Abbiamo parlato della trattativa. Riina sostiene che è stato oggetto e non soggetto di quella trattativa di cui tanto si è discusso in questi anni. Lui sostiene che la trattativa è passata sopra di lui, che l'ha fatta Vito Ciancimino per conto suo e per i suoi affari e insieme ai carabinieri: e che lui, Totò Riina, era al di fuori. Non a caso io, come suo difensore, proprio al processo per le stragi di Firenze già quattro anni fa ho chiesto che venisse ascoltato Massimo Ciancimino in aula proprio sulla trattativa. Riina voleva che Ciancimino deponesse, purtroppo la Corte ha respinto la mia istanza".

E poi, che altro le ha detto Totò Riina nel carcere di Opera?
"E' tornato a parlare della vicenda Mancino, come aveva fatto nell'udienza del 24 gennaio 1998. Sempre al processo di Firenze, quel giorno Riina chiese alla Corte di chiedere a Mancino, ai tempi del suo arresto ministro dell'Interno, come fosse a conoscenza - una settimana prima - della sua cattura".

E questo cosa significa, avvocato?
"Significa che per lui sono invenzioni tutte quelle voci secondo le quali sarebbe stato venduto dall'altro boss di Corleone, Bernardo Provenzano. Come suo difensore, ho chiesto al processo di Firenze di sentire come testimone il senatore Mancino, ma la Corte ha respinto anche quest'altra istanza".

Le ha mai detto qualcosa, il suo cliente, sui servizi segreti?
"Spesso, molto spesso mi ha parlato della vicenda di quelli che stavano al castello Utvegio, su a Montepellegrino. Leggendo e rileggendo le carte processuali mi ha trasmesso le sue perplessità, mi ha detto che non ha mai capito perché, dopo l'esplosione dell'autobomba che ha ucciso il procuratore Borsellino, sia sparito tutto il traffico telefonico in entrata e in uscita da Castel Utvegio".

Insomma, Totò Riina in sostanza cosa pensa delle stragi?
"Pensa che la sua posizione rimarrà quella che è e che è sempre stata, non si sposterà di un millimetro. Ma questa mattina ha voluto dire anche il resto. E cioè: non guardate solo me, guardatevi dentro anche voi".

(19 luglio 2009)


Vale però la pena di leggere anche l'articolo del Corriere, per poi porci una domanda: "cos'altro serve agli italiani per dare sfogo alla loro indignazione?". No, non capisco...

I «messaggi» del boss accusato di decine di omicidi che parla in carcere con l'avvocato: «Non ho scritto io il papello. Nesso tra bombe e Tangentopoli»

Totò Riina: dietro le stragi
i piani alti della politica

«Borsellino fu ucciso da quelli che fecero la trattativa»

DAL NOSTRO INVIATO
PALERMO
— È stato condannato a una sfilza di ergastoli per decine di omicidi e per le più sanguinarie stragi di mafia, a cominciare da quelle di Capaci e via D'Amelio. Sa che ogni sua parola può essere interpretata come un messaggio obliquo. Ma quando ieri mattina Totò Riina, il capo dei corleonesi, è uscito dalla cella a regime di carcere duro per incontrare in una saletta il suo avvocato, Luca Cianferoni, aveva bisogno di sfogarsi: «Ne so poco perché qui non mi passano nemmeno i giornali. Ma questa storia della "trattativa", di un mio "patto" con lo Stato, di tutti gli impasti con carabinieri e servizi segreti legati al fatto di via D'Amelio non sta proprio in piedi. Io della strage non ne so parlare. Borsellino l'ammazzarono loro». Un boato così fragoroso e inquietante nemmeno il suo avvocato se l'aspettava, proprio nel diciassettesimo avversario del massacro. Ovvia la domanda immediata: «Loro? Chi sono "loro"?». E arriva la risposta, a differenza di tante altre volte, dei silenzi ermetici di tante udienze dibattimentali: «Loro sono quelli che hanno fatto la trattativa, quelli che hanno scritto il "papello", come lo chiamano. Ma io della trattativa non posso saperne niente di niente. Perché io sono oggetto, non soggetto di trattativa. E la stessa cosa è per quel foglio con le richieste che qualcuno avrebbe presentato attraverso Vito Ciancimino. Mai scritto da me. Facciamo pure la perizia calligrafica appena viene fuori e scopriremo che io non ho niente a che fare con questa vicenda».

Evidente il richiamo al documento che il figlio di «don Vito», Massimo Ciancimino, sarebbe finalmente pronto a consegnare ai magistrati di Palermo e Caltanissetta, a loro volta impegnati in una revisione delle inchieste sulle stragi di Capaci e via D'Amelio. Fatti nuovi che per molti osservatori e anche per tanti familiari di vittime di mafia la stessa magistratura avrebbe potuto mettere a fuoco già alcuni anni fa, bloccata da omissioni e depistaggi denunciati negli ultimi giorni soprattutto dal fratello di Paolo Borsellino. Ma stavolta a pensarla così, per un paradosso tutto da interpretare, è proprio Salvatore Riina nello sfogo destinato a intercettare gli spinosi argomenti del processo in corso al generale Mario Mori e al colonnello Giuseppe De Donno: «Sono stati i giudici a bloccare l'accertamento perché ho chiesto io a Firenze quattro anni fa di sentire Massimo Ciancimino, per chiedergli quello che sta tirando fuori solo adesso. Ci ho provato a parlare di Ciancimino padre come tenutario di una trattativa con i carabinieri. E volevo che li sentissero tutti in aula, a Firenze. Ma i giudici non hanno ammesso l'esame. Ora parlano tutti di misteri. Ma ci potevamo arrivare, come dicevo io, quattro anni fa a parlare di una trattativa che io ho subito come un oggetto, sulla mia testa». E insiste con l'avvocato Cianferoni ricordandogli tutti i dubbi che gli vengono in cella ripensando a storie e personaggi vicini a Ciancimino padre: «La trattativa questi signori l'hanno fatta sopra di me. Non l'ho fatta io, estraneo ai patti di cui si parla».

Il boss dei boss, indicato come lo stragista più sanguinario di Cosa Nostra e come l'uomo che voleva fare la guerra per fare la pace, ribalta così il quadro. Forse anticipando una difesa da proporre negli eventuali nuovi processi determinati dalla possibile revisione, ma blocca ogni interpretazione: «Per me credo che non cambierà nulla anche con le nuove dichiarazioni di questo pentito, Spatuzza. Non sto facendo calcoli. Ma si deve almeno sapere che io la trattativa non l'ho coltivata». Sarà un modo per rovesciare la responsabilità sull'altro grande capo, Bernardo Provenzano? Riflette un po' Riina perché sa che molti dietro il suo arresto vedono proprio la mano di «don Binnu». «Mai detto e mai pensato», assicura a Cianferoni che trasferisce la convinzione. Aggiungendo l'ultima osservazione di Riina, pur esposta naturalmente a un basso tasso di credibilità: «Le dicerie su Provenzano sono false. Come la storia di Di Maggio. Trattativa, stragi e il mio arresto sono una faccenda molto più alta. Tocca i piani alti della politica. Bisogna capire che Borsellino è morto per mafia e appalti, non per i mafiosi». Politica? E qui riflette il legale di Riina che lo segue dal 1997, certo di interpretarne il pensiero: «Parla di politica intesa come "centri di interesse". E a quell'epoca erano tutti in fibrillazione. Insomma, per capire che cosa c'è dietro la morte di Borsellino bisogna risalire a Milano, non fermarsi a Palermo. E guardare al nesso fra Tangentopoli e le bombe della Sicilia. Quando volevano cambiare tutto».

Felice Cavallaro
19 luglio 2009

giovedì 16 luglio 2009

Sentenza del Gip di Palermo nel troncone del processo Addiopizzo, che si è svolto con rito abbreviato


Scritto da Simona Mammano il 16 luglio 2009

La richiesta di pizzo è una piaga che tocca imprenditori e commercianti di tutte le zone d'Italia.

Tre anni fa sono stata a Palermo e nei locali pubblici ho notato dei ciclostilati con la scritta "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Ai miei commenti di apprezzamento alcuni palermitani hanno asserito che quella era una delle tante idee pubblicitarie. In realtà era un'iniziativa di un comitato che si era costituito da poco, formato da ragazzi sotto i trent'anni. Quel comitato ha fatto tanta strada e l'ultima delle sue iniziative è stata quella di costituirsi parte civile nel processo "Addio pizzo" contro i Lo Piccolo. Riporto il comunicato stampa sull'esito di un troncone del processo, dove 43 dei 59 imputati hanno scelto il rito abbraviato. La sentenza di oggi da parte del gip di Palermo Anania è veramente storica. L'altra parte del processo (Bonanno+16) sta procedendo con rito ordinario e lo si può seguire qui.

Questo è il comunicato stampa che si può leggere sul sito di Addiopizzo:

Palermo, giovedì 16 luglio 2009
Sentenza Processo Addiopizzo: è storia

Comunicato stampa Sentenza storica: Addiopizzo c’è Palermo 16 luglio 2009: Oggi è stata emessa la sentenza di primo grado del troncone del processo “Addio pizzo” celebrato con rito abbreviato. Questo procedimento, avviato a gennaio di quest’anno, ha visto coinvolti 43 soggetti imputati del reato di mafia ed estorsione aggravata (nel rito ordinario, che ancora si deve concludere, gli imputati sono altri 15). Di fatto è il processo contro l’intero clan dei LO PICCOLO, ma ha interessato anche 18 operatori economici che, per aver tentato di aiutare i propri estorsori mafiosi ad eludere le investigazioni a loro carico, sono stati imputati e quindi condannati di favoreggiamento. La decisione del Gup di Palermo, Dott. Vittorio Anania, oltre alle durissime condanne inflitte, per quanto attiene agli imprenditori che si sono costituiti parte civile e alle nostre associazioni che li hanno assistiti, sancisce nelle aule della Giustizia il valore di una svolta che potrebbe essere storica: si è avviata una proiezione socioculturale della lotta repressiva al racket delle estorsioni mafiose. Questa sentenza scandisce la tappa di un processo sociale duro, difficile, ma molto promettente. Ed è arrivata in un breve lasso di tempo. Il 5 novembre 2007 i Lo Piccolo vengono arrestati insieme ad Adamo e Pulizzi. Il 10 dello stesso mese il Comitato Addiopizzo e la Fai presentano al teatro Biondo il frutto di un lavoro senza eguali nel territorio palermitano: l’associazione antiracket Libero Futuro. Nei primi mesi del 2009, grazie anche alle collaborazioni di Pulizzi e Nuccio, vengono arrestati i mafiosi che a luglio saranno oggetto di un riconoscimento storico: 18 dei 20 operatori economici che hanno collaborato con gli inquirenti hanno partecipato all’incidente probatorio, nel quale sono uno delle persone offese ha poi ritrattato le accuse. Oggi, 14 di questi imprenditori, 13 dei quali assistiti dalle nostre associazioni, sono costituite parte civile nel presente procedimento penale che ha complessivamente inflitto quasi 400 anni di carcere al clan dei Lo Piccolo. Le parte civili di questo processo sono state numerose, alcune hanno avuto anche un alto valore simbolico, come la presidenza del consiglio dei ministri, il commissario straordinario antiracket, il ministro dell’interno, il Comune e la Provincia di Palermo. C’è però un dato al quale noi diamo una lettura importante: il giudice Anania, riconoscendoci il diritto al risarcimento del danno con una quantificazione superiore alle associazioni di categoria ha attribuito un valore alla metodologia e al lavoro svolto da noi nel territorio. I risultati, per quanto sudati e sofferti, ci sono ma il metodo di lavoro è replicabile anche da altri. Se ciò avvenisse siamo sicuri che le denunce aumenterebbero.