domenica 19 luglio 2009

Riina e la politica

Scritto da Simona Mammano il 19 luglio 2009 per Fuori dal coro



Serviranno a qualcosa le dichiarazioni fatte ieri, attraverso il suo avvocato, da Totò Riina agli italiani? Perchè di questo si tratta, dichiarazioni per l'opinione pubblica, non per i tribunali con la funzione di collaborare e ottenere uno sconto di pena. Riina dice "Non guardate sempre e solo me, guardatevi dentro". Riporto di seguito l'articolo di Repubblica:


Dopo diciassette anni di silenzio totale parla il boss di Corleone
E sulla strage di via d'Amelio accusa i servizi e lo Stato

Riina sul delitto Borsellino
"L'hanno ammazzato loro"

di ATTILIO BOLZONI, FRANCESCO VIVIANO

TOTÒ RIINA, l'uomo delle stragi mafiose, per la prima volta parla delle stragi mafiose. Sull'uccisione di Paolo Borsellino dice: "L'ammazzarono loro". E poi - riferendosi agli uomini dello Stato - aggiunge: "Non guardate sempre e solo me, guardatevi dentro anche voi". Dopo diciassette anni di silenzio totale il capo dei capi di Cosa Nostra esce allo scoperto.

Riina lo fa ad appena due giorni dalla svolta delle indagini sui massacri siciliani - il patto fra cosche e servizi segreti che i magistrati della procura di Caltanissetta stanno esplorando. Ha incaricato il suo avvocato di far sapere all'esterno quale è il suo pensiero sugli attentati avvenuti in Sicilia nel 1992, su quelli avvenuti in Italia nel 1993. Una mossa a sorpresa del vecchio Padrino di Corleone che non aveva mai aperto bocca su niente e nessuno fin dal giorno della sua cattura, il 15 gennaio del 1993. Un'"uscita" clamorosa sull'affaire stragi, che da certi indizi non sembrano più solo di mafia ma anche di Stato.

Ecco quello che ci ha raccontato ieri sera l'avvocato Luca Cianferoni, fiorentino, da dodici anni legale di Totò Riina, da quando il più spietato mafioso della storia di Cosa Nostra è imputato non solo per Capaci e via Mariano D'Amelio, ma anche per le bombe di Firenze, Milano e Roma.

Avvocato, quali sono le esatte parole pronunciate da Totò Riina? Sono proprio queste: "L'ammazzarono loro"?
"Sì, sono andato a trovarlo al carcere di Opera questa mattina e l'ho trovato che stava leggendo alcuni giornali. Neanche ho fatto in tempo a salutarlo e lui, alludendo al caso Borsellino, mi ha detto quelle parole... L'ammazzarono loro...".

E poi, che altro ha le ha detto Totò Riina?
"Mi ha dato incarico di far sapere fuori, senza messaggi e senza segnali da decifrare, cosa pensa. Lui è stato molto chiaro. Mi ha detto: "Avvocato, dico questo senza chiedere niente, non rivendico niente, non voglio trovare mediazioni con nessuno, non voglio che si pensi ad altro". Insomma, il mio cliente sa che starà in carcere e non vuole niente. Ha solo manifestato il suo pensiero sulla vicenda stragi".

Ma Totò Riina è stato condannato in Cassazione per l'omicidio di Borsellino, per l'omicidio di Falcone, per le stragi in Continente e per decine di altri delitti: che interesse ha a dire soltanto adesso quello che ha detto?
"Io mi limito a riportare le sue parole come mi ha chiesto. Mi ha ripetuto più volte: avvocato parlo sapendo bene che la mia situazione processuale nell'inchiesta Borsellino non cambierà, fra l'altro adesso c'è anche Gaspare Spatuzza che sta collaborando con i magistrati quindi...".

Le ha raccontato altro?
"Abbiamo parlato della trattativa. Riina sostiene che è stato oggetto e non soggetto di quella trattativa di cui tanto si è discusso in questi anni. Lui sostiene che la trattativa è passata sopra di lui, che l'ha fatta Vito Ciancimino per conto suo e per i suoi affari e insieme ai carabinieri: e che lui, Totò Riina, era al di fuori. Non a caso io, come suo difensore, proprio al processo per le stragi di Firenze già quattro anni fa ho chiesto che venisse ascoltato Massimo Ciancimino in aula proprio sulla trattativa. Riina voleva che Ciancimino deponesse, purtroppo la Corte ha respinto la mia istanza".

E poi, che altro le ha detto Totò Riina nel carcere di Opera?
"E' tornato a parlare della vicenda Mancino, come aveva fatto nell'udienza del 24 gennaio 1998. Sempre al processo di Firenze, quel giorno Riina chiese alla Corte di chiedere a Mancino, ai tempi del suo arresto ministro dell'Interno, come fosse a conoscenza - una settimana prima - della sua cattura".

E questo cosa significa, avvocato?
"Significa che per lui sono invenzioni tutte quelle voci secondo le quali sarebbe stato venduto dall'altro boss di Corleone, Bernardo Provenzano. Come suo difensore, ho chiesto al processo di Firenze di sentire come testimone il senatore Mancino, ma la Corte ha respinto anche quest'altra istanza".

Le ha mai detto qualcosa, il suo cliente, sui servizi segreti?
"Spesso, molto spesso mi ha parlato della vicenda di quelli che stavano al castello Utvegio, su a Montepellegrino. Leggendo e rileggendo le carte processuali mi ha trasmesso le sue perplessità, mi ha detto che non ha mai capito perché, dopo l'esplosione dell'autobomba che ha ucciso il procuratore Borsellino, sia sparito tutto il traffico telefonico in entrata e in uscita da Castel Utvegio".

Insomma, Totò Riina in sostanza cosa pensa delle stragi?
"Pensa che la sua posizione rimarrà quella che è e che è sempre stata, non si sposterà di un millimetro. Ma questa mattina ha voluto dire anche il resto. E cioè: non guardate solo me, guardatevi dentro anche voi".

(19 luglio 2009)


Vale però la pena di leggere anche l'articolo del Corriere, per poi porci una domanda: "cos'altro serve agli italiani per dare sfogo alla loro indignazione?". No, non capisco...

I «messaggi» del boss accusato di decine di omicidi che parla in carcere con l'avvocato: «Non ho scritto io il papello. Nesso tra bombe e Tangentopoli»

Totò Riina: dietro le stragi
i piani alti della politica

«Borsellino fu ucciso da quelli che fecero la trattativa»

DAL NOSTRO INVIATO
PALERMO
— È stato condannato a una sfilza di ergastoli per decine di omicidi e per le più sanguinarie stragi di mafia, a cominciare da quelle di Capaci e via D'Amelio. Sa che ogni sua parola può essere interpretata come un messaggio obliquo. Ma quando ieri mattina Totò Riina, il capo dei corleonesi, è uscito dalla cella a regime di carcere duro per incontrare in una saletta il suo avvocato, Luca Cianferoni, aveva bisogno di sfogarsi: «Ne so poco perché qui non mi passano nemmeno i giornali. Ma questa storia della "trattativa", di un mio "patto" con lo Stato, di tutti gli impasti con carabinieri e servizi segreti legati al fatto di via D'Amelio non sta proprio in piedi. Io della strage non ne so parlare. Borsellino l'ammazzarono loro». Un boato così fragoroso e inquietante nemmeno il suo avvocato se l'aspettava, proprio nel diciassettesimo avversario del massacro. Ovvia la domanda immediata: «Loro? Chi sono "loro"?». E arriva la risposta, a differenza di tante altre volte, dei silenzi ermetici di tante udienze dibattimentali: «Loro sono quelli che hanno fatto la trattativa, quelli che hanno scritto il "papello", come lo chiamano. Ma io della trattativa non posso saperne niente di niente. Perché io sono oggetto, non soggetto di trattativa. E la stessa cosa è per quel foglio con le richieste che qualcuno avrebbe presentato attraverso Vito Ciancimino. Mai scritto da me. Facciamo pure la perizia calligrafica appena viene fuori e scopriremo che io non ho niente a che fare con questa vicenda».

Evidente il richiamo al documento che il figlio di «don Vito», Massimo Ciancimino, sarebbe finalmente pronto a consegnare ai magistrati di Palermo e Caltanissetta, a loro volta impegnati in una revisione delle inchieste sulle stragi di Capaci e via D'Amelio. Fatti nuovi che per molti osservatori e anche per tanti familiari di vittime di mafia la stessa magistratura avrebbe potuto mettere a fuoco già alcuni anni fa, bloccata da omissioni e depistaggi denunciati negli ultimi giorni soprattutto dal fratello di Paolo Borsellino. Ma stavolta a pensarla così, per un paradosso tutto da interpretare, è proprio Salvatore Riina nello sfogo destinato a intercettare gli spinosi argomenti del processo in corso al generale Mario Mori e al colonnello Giuseppe De Donno: «Sono stati i giudici a bloccare l'accertamento perché ho chiesto io a Firenze quattro anni fa di sentire Massimo Ciancimino, per chiedergli quello che sta tirando fuori solo adesso. Ci ho provato a parlare di Ciancimino padre come tenutario di una trattativa con i carabinieri. E volevo che li sentissero tutti in aula, a Firenze. Ma i giudici non hanno ammesso l'esame. Ora parlano tutti di misteri. Ma ci potevamo arrivare, come dicevo io, quattro anni fa a parlare di una trattativa che io ho subito come un oggetto, sulla mia testa». E insiste con l'avvocato Cianferoni ricordandogli tutti i dubbi che gli vengono in cella ripensando a storie e personaggi vicini a Ciancimino padre: «La trattativa questi signori l'hanno fatta sopra di me. Non l'ho fatta io, estraneo ai patti di cui si parla».

Il boss dei boss, indicato come lo stragista più sanguinario di Cosa Nostra e come l'uomo che voleva fare la guerra per fare la pace, ribalta così il quadro. Forse anticipando una difesa da proporre negli eventuali nuovi processi determinati dalla possibile revisione, ma blocca ogni interpretazione: «Per me credo che non cambierà nulla anche con le nuove dichiarazioni di questo pentito, Spatuzza. Non sto facendo calcoli. Ma si deve almeno sapere che io la trattativa non l'ho coltivata». Sarà un modo per rovesciare la responsabilità sull'altro grande capo, Bernardo Provenzano? Riflette un po' Riina perché sa che molti dietro il suo arresto vedono proprio la mano di «don Binnu». «Mai detto e mai pensato», assicura a Cianferoni che trasferisce la convinzione. Aggiungendo l'ultima osservazione di Riina, pur esposta naturalmente a un basso tasso di credibilità: «Le dicerie su Provenzano sono false. Come la storia di Di Maggio. Trattativa, stragi e il mio arresto sono una faccenda molto più alta. Tocca i piani alti della politica. Bisogna capire che Borsellino è morto per mafia e appalti, non per i mafiosi». Politica? E qui riflette il legale di Riina che lo segue dal 1997, certo di interpretarne il pensiero: «Parla di politica intesa come "centri di interesse". E a quell'epoca erano tutti in fibrillazione. Insomma, per capire che cosa c'è dietro la morte di Borsellino bisogna risalire a Milano, non fermarsi a Palermo. E guardare al nesso fra Tangentopoli e le bombe della Sicilia. Quando volevano cambiare tutto».

Felice Cavallaro
19 luglio 2009

giovedì 16 luglio 2009

Sentenza del Gip di Palermo nel troncone del processo Addiopizzo, che si è svolto con rito abbreviato


Scritto da Simona Mammano il 16 luglio 2009

La richiesta di pizzo è una piaga che tocca imprenditori e commercianti di tutte le zone d'Italia.

Tre anni fa sono stata a Palermo e nei locali pubblici ho notato dei ciclostilati con la scritta "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Ai miei commenti di apprezzamento alcuni palermitani hanno asserito che quella era una delle tante idee pubblicitarie. In realtà era un'iniziativa di un comitato che si era costituito da poco, formato da ragazzi sotto i trent'anni. Quel comitato ha fatto tanta strada e l'ultima delle sue iniziative è stata quella di costituirsi parte civile nel processo "Addio pizzo" contro i Lo Piccolo. Riporto il comunicato stampa sull'esito di un troncone del processo, dove 43 dei 59 imputati hanno scelto il rito abbraviato. La sentenza di oggi da parte del gip di Palermo Anania è veramente storica. L'altra parte del processo (Bonanno+16) sta procedendo con rito ordinario e lo si può seguire qui.

Questo è il comunicato stampa che si può leggere sul sito di Addiopizzo:

Palermo, giovedì 16 luglio 2009
Sentenza Processo Addiopizzo: è storia

Comunicato stampa Sentenza storica: Addiopizzo c’è Palermo 16 luglio 2009: Oggi è stata emessa la sentenza di primo grado del troncone del processo “Addio pizzo” celebrato con rito abbreviato. Questo procedimento, avviato a gennaio di quest’anno, ha visto coinvolti 43 soggetti imputati del reato di mafia ed estorsione aggravata (nel rito ordinario, che ancora si deve concludere, gli imputati sono altri 15). Di fatto è il processo contro l’intero clan dei LO PICCOLO, ma ha interessato anche 18 operatori economici che, per aver tentato di aiutare i propri estorsori mafiosi ad eludere le investigazioni a loro carico, sono stati imputati e quindi condannati di favoreggiamento. La decisione del Gup di Palermo, Dott. Vittorio Anania, oltre alle durissime condanne inflitte, per quanto attiene agli imprenditori che si sono costituiti parte civile e alle nostre associazioni che li hanno assistiti, sancisce nelle aule della Giustizia il valore di una svolta che potrebbe essere storica: si è avviata una proiezione socioculturale della lotta repressiva al racket delle estorsioni mafiose. Questa sentenza scandisce la tappa di un processo sociale duro, difficile, ma molto promettente. Ed è arrivata in un breve lasso di tempo. Il 5 novembre 2007 i Lo Piccolo vengono arrestati insieme ad Adamo e Pulizzi. Il 10 dello stesso mese il Comitato Addiopizzo e la Fai presentano al teatro Biondo il frutto di un lavoro senza eguali nel territorio palermitano: l’associazione antiracket Libero Futuro. Nei primi mesi del 2009, grazie anche alle collaborazioni di Pulizzi e Nuccio, vengono arrestati i mafiosi che a luglio saranno oggetto di un riconoscimento storico: 18 dei 20 operatori economici che hanno collaborato con gli inquirenti hanno partecipato all’incidente probatorio, nel quale sono uno delle persone offese ha poi ritrattato le accuse. Oggi, 14 di questi imprenditori, 13 dei quali assistiti dalle nostre associazioni, sono costituite parte civile nel presente procedimento penale che ha complessivamente inflitto quasi 400 anni di carcere al clan dei Lo Piccolo. Le parte civili di questo processo sono state numerose, alcune hanno avuto anche un alto valore simbolico, come la presidenza del consiglio dei ministri, il commissario straordinario antiracket, il ministro dell’interno, il Comune e la Provincia di Palermo. C’è però un dato al quale noi diamo una lettura importante: il giudice Anania, riconoscendoci il diritto al risarcimento del danno con una quantificazione superiore alle associazioni di categoria ha attribuito un valore alla metodologia e al lavoro svolto da noi nel territorio. I risultati, per quanto sudati e sofferti, ci sono ma il metodo di lavoro è replicabile anche da altri. Se ciò avvenisse siamo sicuri che le denunce aumenterebbero.